Interview with Barbara Probst in Barbara Probst

Intervista a Barbara Probst

Lorenza Bravetta, 2022

 

LB Sei figlia di uno scultore e hai studiato a tua volta scultura, prima a Monaco e poi all’Accademia di Düsseldorf. Che cosa ti ha spinta verso la fotografia?

BP Direi che ho deviato verso la fotografia quando stavo per completare i miei studi di scultura. Modellando e disegnando dal vero, cercavo di riprodurre fedelmente la natura. Osservavo con grande attenzione i nudi e con le mani trasponevo nella creta ciò che vedevo. Lavorando in questa maniera puramente soggettiva, ho iniziato a sentirmi attratta da un medium che sembra avere un aspetto oggettivo, un legame diretto con la realtà; e in effetti, la fotografia registra la realtà e la traspone su pellicola mediante un processo tecnico, in maniera apparentemente oggettiva. La parola tedesca per ottica è infatti Objektiv. Fin dall’inizio ho trovato questo nesso con a realtà misterioso e per certi versi opinabile. Il mix di realtà e di illusione, o poesia che dir si voglia, sembrava un elemento intrinseco alla fotografia. La discrepanza tra oggettività e mistero mi ha spinto a studiare questo medium più da vicino, e da qui sono nati i lavori che ho realizzato negli ultimi ventidue anni. Forse il mio è stato un tentativo di smantellare questa ostinata corazza di oggettività che pretendiamo ancora di far indossare alla fotografia.

D’altro canto, non ho mai abbandonato la scultura. I diversi punti di vista delle mie macchine fotografiche derivano dal mio interesse scultoreo per le forme e gli spazi tridimensionali che osservo da angolazioni diverse per capirli meglio. Credo perciò di essere ancora una scultrice e di utilizzare semplicemente la fotografia come strumento.

LB La visione è stato un tema costante della tua ricerca sin dai primi lavori. La fotografia è uno strumento utile per chiederci come vediamo e costruiamo le immagini nella nostra mente. Si può dire che, come il fotografo, l’osservatore svolge una parte attiva nel lavoro ed è capace di influenzarlo e determinarlo attraverso la sua percezione soggettiva?

BP La soggettività è fondamentale sia nell’elaborazione di una fotografia che nel processo percettivo. Gli aspetti legati alla comprensione o alla lettura dell’immagine mi interessano tanto quanto tuttii dettagli connessi al fotografare. Il fruitore dei miei lavori deve avere un ruolo attivo in essi. Nella sua mente, le immagini smettono di essere entità separate per cominciare a funzionare in sinergia, collegandosi e interagendo fra loro, e così iniziano ad assumere senso. Ciascun osservatore interpreta il lavoro in maniera leggermente diversa, proprio come succede quando leggiamo un libro, vediamo un film o gustiamo un piatto.
Trovo molto interessante che ognuno di noi abbia un modo personale di vedere e percepire il mondo, legato non solo a un certo punto di vista ma anche alle proprie condizioni fisiche e psicologiche, alla propria storia ed esperienze passate, alle proprie convinzioni e conoscenze. Viviamo tutti su questo pianeta, ma guardiamo il mondo in condizioni e circostanze diverse, perciò non stupisce che il nostro modo di osservarlo ci porti a conclusioni diverse. Quello che mi affascina, però, è che ogni punto di vista ha lo stesso valore, e questo l’ho imparato dal mio lavoro.

Quando si fotografa una scena da diversi punti di vista simultanei, si ottengono immagini compatibili ed equivalenti, immagini che in più non hanno una gerarchia perché sono legate allo stesso momento, così come noi esseri umani siamo legati al qui e ora.

LB Il 7 gennaio del 2000, alle 22.37, su un tetto della 8th Avenue a New York, hai realizzato la prima di una lunga serie di Exposures, lavori composti da due o più fotografie che rappresentano lo stesso sog- getto da punti di vista diversi. Con l’aiuto di un telecomando, hai attivato contemporaneamente più macchine fotografiche direzionate sullo stesso evento ma da angolazioni e distanze differenti. Il bressoniano “istante decisivo” è stato scomposto e dilatato, mettendo in discussione il ruolo del fotografo e il rapporto tra fotografia e realtà. Come ti è venuta questa idea?

BP Nei miei lavori, il punto di vista unico di Henri Cartier-Bresson si scompone in molti punti di vista. Credo che il concetto di “istante decisivo” di Cartier-Bresson abbia creato un mito intorno all’intuizione del fotografo nel cogliere il momento perfetto. A me interessa demistificare l’intuizione del fotografo. Mi interrogo su come e perché creiamo immagini, e anche perché e come le guardiamo. Non credo nell’esistenza del momento perfetto, del punto di vista perfetto o dell’intuizione perfetta, e vedo ogni fotografia come una rappresentazione possibile, ma non come la rappresentazione di un momento. La fotografia come strumento per trovare o inventare immagini non mi ha mai interessato. Io la uso piuttosto per mettere in discussione il medium stesso e tutti gli aspetti a esso collegati. Per me la macchina fotografica contiene un paio di occhi umani che vedono un piccolo dettaglio del mondo, e la fotografia rappresenta il dettaglio del mondo che quegli occhi vedono. Perciò credo che il mio lavoro abbia a che fare con i nostri schemi visivi e percettivi. Che osserviamo la realtà oppure delle immagini fotografiche, quegli schemi entrano comunque in gioco: noi prevediamo, riconosciamo, confermiamo, rifiutiamo e filtriamo ciò che vediamo. In ogni caso, credo che a volte la fotografia come medium influenzi la nostra società più della realtà stessa. Il medium è troppo potente e, al tempo stesso, troppo controverso nella sua presunta fedeltà per non tener conto di queste criticità mentre lo usiamo.

LB Il tuo metodo, che da un lato moltiplica i punti di vista e dall’altro diversifica il momento dello scatto, si applica a diversi generi, dal reportage, la ritrattistica, la fotografia di moda e lo still life alla sorveglianza. Che cosa determina la tua scelta del soggetto e il ricorrere di quelli che si potrebbero definire clichés più che situazioni straordinarie o singolari?

BP È vero che non c’è niente di straordinario nelle scene che foto- grafo. A me non interessa ciò che sta di fronte alla macchina fotografica, ma come la macchina foto- grafica vede ciò che ha di fronte. A me interessa il modo in cui vediamo, non cosa vediamo. Un’immagine non rappresenta mai la realtà di fronte alla macchina fotografica, ma la visione che ne ha il fotografo. La verità di una fotografia sta al di là della macchina fotografica, nella soggettività del fotografo.

Io voglio realizzare immagini che si riferiscono a quello che già conosciamo: alla memoria collettiva delle immagini. Non c’è nulla di più noto dei clichés: pensiamo alle im- magini delle Alpi bavaresi o di New York, per esempio. Immagini iconiche che conosciamo attraverso i film, le pubblicità, le riviste o inter- net. Ma queste foto rappresentano una certa prospettiva sulle Alpi o sulle strade di New York. Raramente vediamo queste immagini iconiche da un secondo, terzo o quarto punto di vista. Nell’utilizzo quotidiano della fotografia accettiamo l’immagine come se fosse l’unica rappresentazione possibile di un dato momento. Mostrare più di una prospettiva equivale a scomporre l’assolutezza dell’immagine fotografica in frammenti, alzando il sipario sul regno della relatività in cui abitano le fotografie.

LB Sono rimasta colpita dalla me- ticolosità con cui hai preparato
a tempo di record il modello per la mostra in Triennale. La realizzazio- ne di modelli tridimensionali non è solo un modo di pianificare il lavoro nello spazio, ma è stata anche parte integrante della tua ricerca. Che ruolo svolgono il tempo e lo spazio nella composizione dei tuoi lavori e come hai strutturato le sequenze?

BP Per me il tempo è semplicemente un mezzo per raggiungere un fine. Ma è fondamentale per tutte le mie serie. Il momento simultaneo lega tra di esse le immagini della serie e le rende comparabili. Lo spazio è il fulcro del mio processo di produzione. Penso e immagino lo spazio mentre programmo e realizzo un lavoro. Quando predispongo le macchine fotografiche per uno scatto mi sento spesso come uno scultore che osserva il modello o la scena da diverse an- golazioni. Costruisco modelli di spazi espositivi per mettere a fuoco il layout della mostra. Realizzo piccoli modelli anche in preparazione degli scatti. A volte creo figurine dei protagonisti per avere un’idea chiara dei rapporti spaziali tra di essi. A parte la mia immaginazione, per me i modelli tridimensionali sono il modo migliore per capire come montare una mostra o un lavoro fotografico. Ancora una volta, immagino che sia la scultrice che è in me a farmelo fare.

LB Il titolo della mostra Poesia e verità evoca il dualismo della fotografia, che non è mai una mera riproduzione della realtà ma neppure solo una finestra da cui osservarla. Qual è il ruolo della fotografia nell’indeterminatezza che caratte- rizza la nostra epoca?

BP Oggi nuotiamo in acque torbide. E forse è per questo che il desiderio di certezza e determinazione è tanto grande. D’altra parte, percepisco nella società un crescente scetticismo o insicurezza, il che ci offre forse l’opportunità di renderci conto che la verità è complessa e non sempre facile da cogliere. Qualsiasi cosa ci appaia come verità deve essere maneggiata con cura. E questo è il punto debole della fotografia: il rapporto inaffidabile del medium con la realtà.

Mi chiedo quando la fotografia sarà considerata come la pittura, come un’espressione del fotografo e non semplicemente la documentazione di un evento. Se ciò accadesse, segnalerebbe un passaggio dall’accettazione inconscia del dato di fatto a una ricerca dinamica e stimolante oltre la superficie delle cose. Forse il modo in cui ci rapportiamo alla fotografia riflette il modo in cui ci rapportiamo al concetto di verità. Come James Stewart nel film di Hitchcock La donna che visse due volte, cerchiamo di adattare la realtà ai nostri desideri e alla nostra immaginazione, per evitare di vedere ciò che non vogliamo vedere.

 

Lorenzza Bravetta

2022